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Castellanos si racconta: «Mi ispiro a Luis Suarez. Gioco in Europa solo per un motivo»

Castellanos si racconta: «Mi ispiro a Luis Suarez. Gioco in Europa solo per un motivo». Tutte le dichiarazioni dell’attaccante della Lazio
L’attaccante della Lazio, Taty Castellanos, apre le porte della sua casa romana al giornalista argentino Julian Polo, ospite per il terzo episodio del format ‘De visitante‘. Nel corso di una lunga intervista nella Capitale, il centravanti biancoceleste si è raccontato a 360 gradi, ripercorrendo le tappe fondamentali della sua carriera e del suo percorso di vita. Queste le sue parole.
L’ESORDIO CON L’ARGENTINA – «L’esordio con l’Argentina? Il 5 settembre è passato un anno. Non mi ero nemmeno scaldato, vincevamo 3-0 e aveva appena segnato Julian Alvarez. Ho guardato Scaloni che mi ha detto: “Taty sbrigati, vieni!”. Ho messo subito la maglia e sono entrato. Mi ero preparato tutta la vita per quel momento. La foto con Messi? Gliel’ho chiesta in allenamento, l’ultimo prima della partita. Quando sono arrivato mi ha trattato molto bene, come a tutti gli altri ragazzi che erano nuovi in squadra. È una persona che non parla tanto, sta con il suo gruppetto composto da De Paul, Paredes e gli altri. Comunque con noi si è comportato in maniera spettacolare, anche durante gli allenamenti. Lui è il tipico leader silenzioso, viverlo da dentro è incredibile perché noti dettagli che da fuori non si vedono. È il migliore della storia e lo sarà ancora per molto tempo».
MARADONA E MESSI – «Il tatuaggio ‘El mas humano de todos los dioses’? Siamo una famiglia molto ‘Maradoniana’, soprattutto i miei fratelli. Io non l’ho vissuto come giocatore, ho visto molto di più la sua seconda parte di vita. Avevo voglia di tatuarmi qualcosa di argentino e ho scelto Diego. Anche di Messi vorrei tatuarmi qualcosa, un suo autografo magari sulla gamba. Non ho ancora avuto l’opportunità, ma voglio farlo. Loro due sono i migliori della storia del calcio argentino. Io ho avuto l’occasione di godermi a pieno Messi e anche di giocare insieme a lui, voglio che tutto questo resti sulla mia pelle».
GLI INIZI IN ARGENTINA E IN CILE – «Io sono un argentino di sangue proprio, non ho nessun’altra origine o un passaporto diverso. Ma non ho mai giocato in Argentina ed è una cosa strana. Spesso mi chiedo il motivo, non è successo per situazioni diverse, potevo giocare nel Lanus o nel River Plate, ma alla fine non è successo. Ho giocato nel Murial, una squadra del quartiere di Mendoza, e avevo il potenziale per andare altrove. Ho fatto un provino con l’Universidad de Chile e mi hanno preso. Lì sono stato quasi un anno giocando nelle giovanili e riuscendo anche a debuttare in prima squadra, in Copa Sudamericana, con Beccacece in panchina. Tra l’altro c’erano stati problemi dei burocratici che non mi avevano permesso di giocare prima, sono stato fermo quasi 8-9 mesi fino ai diciotto anni quando ho firmato il mio primo contratto da professionista e ho esordito».
STARE LONTANO DALLA FAMIGLIA – «Quando vai via da casa ciò che ti manca di più è la famiglia, il vivere quotidianamente amici e parenti. Sin da bambino però avevo il sogno di giocare a calcio, dovunque. I primi mesi sono sempre i più difficili perché non sai cosa succederà in futuro. Io in Cile giocavo poco, avevo tanti problemi, non avevo un contratto, mi pagavano poco, mi mancava mia nonna, mio padre e tanto altro. In quel momento ti chiedi se ce la fai ad andare avanti o meno. Non potevo giocare, mi allenavo con le giovanili, mi dicevano che i documenti sarebbero arrivati, ma niente. Tutto questo mi consumava perché è passato tanto tempo. Poi alla fine ce l’ho fatta. Il mio desiderio di diventare un calciatore era troppo forte, non mi importava più di nulla, ero concentrato sull’obiettivo. I miei amici a quell’età andavano alle feste, mi mandavano foto, e io invece dormito e mi allenavo. Ma non mi è mai pesato perché avevo un sogno, quello di giocare a calcio. Volevo aiutare la mia famiglia, avevo promesso a mia nonna che sarei diventato un calciatore professionista. In Cile ho avuto anche l’opportunità di vivere con mio padre che stava lì. Prima non ci vedevamo molto perché io stavo in Argentina, poi siamo stati insieme quasi un anno e questo ci ha uniti molto. E alla fine mi sono spostato in Uruguay a giocare».
L’INFANZIA – «Noi eravamo una famiglia molto unita. Mia madre lavorava a scuola, faceva il doppio turno come la maestra elementare. Si alzava alle sette del mattino e stava lì fino a mezzogiorno, poi magari mangiava a casa e tornava a lavorare fino alle sei di sera. Era così tutti i giorni, questo perché anche noi avessimo qualcosa da mangiare. Poi i miei fratelli erano già grandi, quindi anche loro cucinavano qualcosa. Io andavo a scuola la mattina e tornavo all’una, dopo mangiato andavo ad allenarmi alle tre del pomeriggio. Fino alle cinque giocavo a calcio a undici nel Murialdo, poi alle sei mezza andavo a giocare a calcetto nella selezione del Mendoza. Arrivavo a casa a mezzanotte o anche più tardi. Il quartiere in cui vivevo poi non era così bello, ho passato molto tempo per strada e avrei potuto seguire le cattive compagnie che giravano. Mia madre è tutto, mi ha aiutato tantissimo, la porto sempre con me. Mi sostiene, mi dà tanta energia, si prende cura di me. Mi ha insegnato anche a fare attenzione all’energia negativa. Siamo molto superstizioni, percepisco le sensazioni negative delle persone, così come la mia ragazza. Sono molto attento a queste cose. Anche mi nonna è stata importante, mi ha reso tutto ciò che sono oggi. Tutta la mia famiglia mi ha insegnato i valori giusti, così come il calcio e gli allenatori che ho avuto da quando sono piccolo. Loro mi hanno guidato in tutta la mia carriera, e credo che anche questo sia stato fondamentale».
MLS – «I primi mesi a New York sono stati difficili, soprattutto per la questione della lingua. Lì fortunatamente le persone rendono tutto più semplice, il club mi ha aiutato tanto. Il mio agente, che parla inglese, mi ha organizzato tutto. Io ero giovane, era un’esperienza unica, in un campionato che stava crescendo, con i migliori stadi, il campo perfetto e molto altro. È un sogno per qualsiasi ragazzo di 18 anni. La MLS ti dà davvero tutto, ti comprano anche i mobili. Maxi Moralez, che è argentino, mi ha aiutato a integrarmi bene. Lui e la sua famiglia mi hanno preso sotto la loro ala, sono stati importanti sia in città che a muovermi nel club. Così subito mi sono sentito molto a mio agio. Il mio primo gol? Ero arrivato il mercoledì per allenarmi e giocavamo il sabato. Pensavo che sarei andato in panchina, poi invece ho giocato da titolare su scelta dell’allenatore. Con uno dei primi palloni che ho toccato, ho segnato. E me l’hanno anche regalato. Poi quando siamo diventati campioni della MLS, mi hanno dato un anello con tutti i diamanti, come nel basket. Alla fine della stagione regolare ho ricevuto anche la Scarpa d’Oro della MLS, avevo segnato contro il Philadelphia Union. Quando in settimana sono arrivato al centro sportivo per allenarmi, c’è stata una riunione nello spogliatoio e hanno fatto vedere un video. C’era tutta la mai famiglia che mi faceva i complimenti, io mi sono commosso. L’unica che mancava era mia madre, e infatti mi sembrava strano. Poi si è aperta la porta e c’era proprio lei che mi ha dato la Scarpa d’Oro. È stata una grande emozione, anche il mio allenatore si era messo a piangere».
IL GIRONA E I QUATTRO GOL AL REAL MADRID – «I quattro gol al Real Madrid? Ho il pallone di quel giorno, erano 75 anni che qualcuno non ci riusciva. È stata una notte magica, qualcosa di importantissimo, che non hanno in molti. A casa ho anche la chiave di New York, è una cosa che viene data solo a persone importanti come medici, dottori, militari. Cittadini illustri, insomma, quelli che hanno realizzato qualcosa di importante per la città. L’hanno regalata a tutti noi giocatori dopo che abbiamo vinto il campionato, così come la Coppa della MLS».
HOBBY – «A casa ho una sala giochi, la uso quando vengono i miei amici o la mia famiglia. Ho anche la PlayStation, ci gioco per staccare un po’, un’oretta al giorno. Mi piace giocare a Call of Duty e nient’altro. Nemmeno a FIFA, lì sono terribile. E poi quando sto qui voglio allontanarmi un po’ dal calcio. Sono anche un grande appassionato di scacchi, da quattro-cinque anni ho iniziato ad apprezzarlo molto. Gioco anche online, mi piace competere. Non sono un fenomeno, ma mi diverto. Il tatuaggio della ali? Non è un riferimento alla Lazio, l’ho fatto prima. Mi piacevano e volevo tatuarmele. Il vino? In famiglia siamo grandi appassionati, ne abbiamo tantissimi in cantina. È un nostro hobby, li uso per fare i regali con il mio cognome sopra. Non sono ancora in commercio, adesso siamo un po’ fermi ma abbiamo tante bottiglie. È un processo lungo. Ma chissà in futuro, non si sa mai. Può nascere qualcosa di nostro, con i miei fratelli».
ALLENAMENTI – «A Roma ho anche la mia palestra personale: da quando sono arrivato in Europa, dal Girona in Spagna, faccio del lavoro extra e mi segue un nutrizionista. A New York non lo avevo perché mangiaviamodirettamente al centro sportivo. Io ora gli mando il programma della settimana e di tutte le partite, a seconda di quello mi dicono cosa devo mangiare. Ovviamente non sono troppo ossessionato, ogni tanto mi concedo anche qualche strappo alla regola. Poi lavoro anche con un psicologo analista, prima delle partite mi informo su tutto: dai difensori che devo affrontare alle loro caratteristiche e tanto altro. Faccio pure diversi esercizi di respirazione che mi servono in partita e in allenamento, è una cosa che bisogna portare avanti con costanza nella vita, respirare con il diaframma. Mi aiuta tanto per respirare il più possibile con il naso e meno con la bocca, migliora anche il sonno durante la notte. Cerco di essere il più professionale possibile, di godermi al meglio la mia carriera che è breve. Provo a sfruttarla al massimo, a investire su tutto ciò che mi può servire. Ho una stanza dove la mattina vado a fare stretching e meditazione. Mi ha insegnato tutto il mio mental coach, mi piace riposare un po’ la testa e lasciare da parte il telefono, così mi rilasso».
COLLEZIONE DI MAGLIE – «Ho tutta la mia collezione di magliette da calcio ordinate. Ne ho tantissime mie di quando giocavo in MLS al New York City. Ho anche quella del mio esordio con l’Argentina e due del pre-olimpico. Della Lazio ne ho una nera dell’anno scorso della Lazio, quando ho cambiato dal numero 19 all’11, e una della mia prima stagione quando giocavamo la Champions League. Poi ne ho tenuta anche una del Girona firmata da tutti i miei compagni quando sono andato via. Di altri giocatori ho quelle di Maxi Moralez, David Villa, tra le più belle che ho, di Barco, di Rooney, tutte di quando stavo negli Stati Uniti. Poi ne ho tantissime della Serie A, come quella di Nico Gonzalez alla Juventus o di Retegui, Beltran, Castro, Alcaraz, Palomino, Olivera del Napoli, di Pedro alla Lazio che me l’ha data. Tengo anche tante maglie straniere, come quella di Medina, Reinier del Borussia Dortmund, Delort, Danilo del Manchester City, una della Nigeria che mi ha regalato Dele-Bashiru, della Danimarca di Isaksen, dell’Uruguay di Vecino e del Senegal di Dia. Sono tutti miei compagni e amici. Della Liga ho diverse magliette, per lo più di giocatori argentini. Però ne ho anche una del Chelsea che mi ha regalato Enzo Fernandez, tra le più belle; una di Hazard del Real Madrid, ho giocato contro di lui al Bernabeu. Mi hanno regalato anche una divisa dell’Argentina per l’ultima partita di Di Maria in Nazionale, è davvero speciale. Era la mia preparazione convocazione, lui è un giocatore pazzesco, lo seguivo sin da piccolo. Si è davvero meritato tutto ciò che ha ricevuto in carriera».
GLI IDOLI – «I miei idoli? Mi piaceva tanto Luis Suarez, è uno dei miei riferimenti. Adoro la sua cattiveria in campo, la sua ‘garra’. È un giocatore fortissimo. Adesso mi piace tanto Lautaro Martinez, che è un mio grande amico. Mi manca la sua maglietta nella collezione, ogni volta che giochiamo contro c’è sempre un problema che non ci fa incontrare (ride, ndr.). Aspetto anche di avere la maglia di Messi»
IL SOGNO DEL MONDIALE 2026 – «Il Mondiale? Spero sempre di giocare in Nazionale, anche se è molto difficile per i giocatori forti che ci sono. Mi piacerebbe tanto esserci al Mondiale, devo lavorare tanto alla Lazio per raggiungerlo. Ci penso sempre. Se avrò la possibilità, dovrò essere pronto. Per giocare al Mondiale devi essere pronto e a un livello alto. Io gioco in Europa solo per andare in Nazionale, non sono mai voluto andare a giocare nel campionato sudamericano o arabo perché il mio obiettivo è quello. Io vivo pensando alla maglia dell’Argentina, sempre. Quando vedo che non sono nella lista dei convocati, ci sto male. Poi dal giorno dopo cerco di riprendermi e di lavorare ancora più forte. Sono concentrato ad andare in Nazionale, anche se è sempre molto difficile. Andare al Mondiale con l’Argentina sarebbe un sogno per me e per tutta la mia famiglia. Devo giocare bene alla Lazio e stare bene, Scaloni ha dato a tanti giocatori nuovi la possibilità di stare nel gruppo. Io continuo a lavorare, a farmi trovare preparato e poi vediamo. La finale del Mondiale 2022 l’ho vista in hotel con Gazzaniga, quando stavo al Girona, perché era il periodo della preparazione per ricominciare il campionato. Abbiamo distrutto tutto a fine partita. Poi con mio fratello siamo andati a Girona in un bar argentino a festeggiare. C’erano 25-30mila persone in città. Mi sono emozionato per la vittoria, soprattutto per Messi che se lo meritava. È il migliore di tutti».
LA RABONA E NON SOLO – «Mi piace sempre provare qualche giocata, come la rovesciata o la rabona. Da piccolo le facevo in casa, saltando sul letto. Contro il Verona ho fatto un assist di rabona, mi piace giocare così, come con la suola. Sono cose che mi porto dietro dal calcetto, quando ero bambino».
L’INCONTRO CON XAVI – «La foto con Xavi? Era il 2017, giocavo in Cile e siamo finiti a fare un triangolare in Qatar. Nel giorno libero che avevamo siamo andati a fare shopping vicino all’hotel e casualmente l’ho incontrato, visto che lui giocava lì. È un bel ricordo». GLI ESORDI – «Praticamente a ogni mio esordio ho segnato. È successo in Cile, in MLS, al Girona, contro il Getafe in campionato, e ala Lazio, quando alla mia prima partita da titolare ho segnato contro l’Atalanta. Diciamo che per le statistiche, va bene così (ride, ndr.)». IL GRUPPO CITY – «Il gruppo City? È un gruppo molto forte a livello mondiale, al New York City si percepiva. C’è un modo di lavorare diverso, sin dalle giovanili. Anche in campo si sentiva, tutte le squadre hanno lo stesso modo di giocare, dal Manchester City in giù».
IL RAPPORTO CON LUQUE – «Leopoldo Jacinto Luque mi ha aiutato tantissimo. Da piccolo avevo avuto contatti con Buenos Aires e con il River Plate, era il periodo in cui era retrocesso dalla Serie A alla B. Mi dissero però che cercavano un altro tipo di giocatore perché ero troppo magro. Venivo dal mio quartiere, era normale. Gli altri ragazzi che già stavano lì erano dei giganti perché si allenavano nelle strutture del club. In quel momento ho pensato di dover lavorare ancora di più, ho chiesto a mia madre di farmi andare in palestra per crescere fisicamente. Ho fatto 6-7 mesi con grande costanza, allenandomi sempre. Poi ho fatto una prova all’Universidad de Chile e mi hanno preso. Lì forse avevano una mentalità più europea, non hanno visto solo il fisico ma anche il mio modo di giocare. Da lì è iniziata la mia storia. Leopoldo Jacinto Luque è stato il mio padre calcistico, l’ho conosciuto a sette anni. Mi ha insegnato davvero tutto. È stato una persona straordinaria».
RONALDINHO – «Ronaldinho? Ho giocato con lui in un evento, ho fatto 4-5 giorni a Miami, mi aveva invitato un mio amico. Doveva esserci anche Roberto Carlos, ma non c’era».
