C'era una volta 'Inzaghino'. 5 anni dopo Simone è diventato grande
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C’era una volta ‘Inzaghino’. 5 anni dopo Simone è diventato grande

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5 anni fa cominciava l’era Inzaghi. Arrivato tra lo scetticismo generale, Inzaghino è diventato grande

3 aprile 2016, ore 17 circa. Sul prato dello Stadio Olimpico i giocatori biancocelesti si guardano negli occhi chiedendosi: «Come siamo arrivati a questo punto?». Qualche mese prima, la Lazio di Pioli si giocava i preliminari di Champions, mentre quel pomeriggio di primavera crollava sotto i colpi della Roma. Quattro gol, crisi profonda, squadra alla deriva. All’orizzonte nessun raggio di sole.

Qualche ora più tardi, un telefono squilla. «Simone, te la senti?». Quel Simone porta sulle spalle un nome pesante, almeno quanto l’eredità lasciata dal fratello più vincente. E non è facile scrollarsi di dosso l’etichetta del «fratello di…». Inzaghino se la sente, sarà l’allenatore della Lazio, fino a contrordine. Mani tra i lunghi capelli neri: «Da dove comincio?». Fino a quel momento aveva allenato la Primavera (e anche bene), il suo cuore sanguina biancoceleste. Sì, ma la Prima Squadra è un altro pianeta. E lo spazio cosmico per raggiungerla passa anche da dubbi, e perchè no, paure. Simone però, sembra essere nato pronto. Tutti in ritiro, serve una scossa. E arriva una settimana più tardi, 3-0 al Palermo. Comincia lì la favola di Inzaghino, diventerà l’allenatore della Lazio con più presenze in panchina.

Non un semplice traghettatore

  1. Ed ecco verso noi venir per nave
  2. un vecchio, bianco per antico pelo

Così il Sommo Poeta scriveva nel 14esimo secolo nella Divina Commedia, riferendosi a Caronte, il traghettatore dagli occhi di fuoco che aveva il compito di accompagnare le anime dei defunti dal mondo dei vivi a quello dei morti. Questo era il compito di Simone. 7 finali per ottenere la fiducia di Lotito, porta a casa 12 punti su 21. «Io mi confermerei», questo il messaggio a fine stagione. Ma le intenzioni societarie sono altre. Arriva Bielsa, oppure no? Il Loco non si smentisce, si dimette dopo due giorni. Il telefono di Inzaghino squilla di nuovo, mentre è in procinto di trasferirsi alla Salernitana: «Devi tornare, te la risenti?». Aridaje, così si dice a Roma. E Simone probabilmente lo avrà pensato. Inversione di marcia, Formello sul navigatore. Stavolta per restarci.

In estate va via Klose, arriva Immobile. Simone ha il suo bomber. Rivitalizza lo scontento Keita, lo porta a segnare 16 gol in Serie A, lo coccola, lo esalta. I successi nei derby sono frutto del suo lavoro sulla testa del senegalese. Da 4 anni la Lazio non vinceva una stracittadina, a fine stagione ne vincerà due. Uno in Coppa Italia, che permetterà ai biancocelesti di accedere alla finale, poi in campionato, in occasione dell’ultima apparizione di Totti in un derby. Proprio nel segno di Keita. A fine anno sarà quinto posto, si torna in Europa. Ma la Juve di Allegri è troppo forte, e la finale è un fallimento. Ma ci sarà tempo per rifarsi.

Primo titolo, con un grande rimpianto

Qualche mese dopo è ancora Lazio-Juventus, stavolta in Supercoppa Italiana. Keita fa i capricci, capitan Biglia vuole il Milan. Ma la forza di Inzaghino non sta negli interpreti, quanto nell’organizzazione. Luis Alberto sembra un altro, Immobile fa quello che gli riesce meglio. Ma è una ‘sua‘ creatura a decidere il match, dopo la rimonta bianconera e i fantasmi dietro l’angolo: Ale Murgia, allo scadere. Apoteosi Lazio. É il primo titolo di Inzaghi. Non più Inzaghino. É la stagione del passaggio definitivo al 352, mai più messo da parte. Ma è anche la stagione dei rimpianti, quel maledetto Lazio-Inter all’ultima giornata brucia eccome. La Champions sfuma quando sembrava lì a portata di mano. Non disperare Simone, doveva andare così. Ci sarà tempo per rimediare.

Non può piovere per sempre

L’anno successivo sembra andare tutto per il verso storto, la squadra non è quella dell’anno precedente, Inzaghi è sotto accusa, c’è chi teme in un’annata fallimentare. Ma ecco che arriva il secondo sigillo del tecnico sulla panchina biancoceleste, la Coppa Italia conquistata contro l’Atalanta in un Olimpico in delirio.

Simone si riconferma l’anno successivo, battendo la Juventus in Supercoppa come accaduto due anni prima. Terzo titolo in bacheca, 2020 che comincia alla grande. L’11 gennaio arriva la decima vittoria consecutiva in campionato, cosa mai avvenuta nella storia della Lazio. Sembra il preludio a qualcosa di più grande, anche solo da nominare. Quella parola si insinua tra i meandri della Capitale, nei sussurri dei tifosi, nei bar, nelle radio. A 20 anni dall’ultima volta, sembra l’anno buono per lo Scudetto. La Juventus è davanti, ma è tutt’altro che irresistibile. Inzaghi spinge al massimo i suoi, a febbraio il distacco dalla vetta è di un solo punto. Sul più bello, l’incubo assume una forma imponderabile: la pandemia sparge il terrore, stravolge le esistenze. Il calcio, giustamente, si prende una pausa di riflessione. La classifica viene congelata, si riparte a giugno, ma quell’aura di magia che avvolgeva la Lazio si esaurisce così come sembra esaurirsi il virus. La squadra di Inzaghi scivola sempre più giù, i rimpianti sono enormi. Immobile eguaglia Higuain, Simone diventa l’allenatore della Lazio con più presenze in panchina, il quarto posto è lì, al sicuro, la Champions League torna a Roma sponda biancoceleste dopo 13 anni.

La stagione attuale è ancora un rebus, la brillantezza di quella passata è un lontano ricordo, e oggettivamente difficile da riconquistare. Il girone di Champions viene superato da imbattuta, ma il Bayern Monaco è troppo più forte. Immobile sembra spaesato, la classifica non è propriamente idilliaca, e la riconferma nell’Europa che conta appare complicata. Il tutto si lega alla situazione contrattuale di Inzaghi. Rinnovo si, rinnovo no? Le parti sembrano a volte vicine, altre volte più distanti. Il tecnico e Lotito sono camaleontici, l’annuncio tarda ad arrivare, il richiamo delle big è forte, e il presidente non esclude un futuro senza il frontman da 3 titoli in bacheca. 5 anni dopo quel 3 aprile 2016 però, una cosa è certa: il figlio prediletto si è scrollato di dosso l’etichetta del «fratello di…». Non chiamatelo più Inzaghino, Simone è diventato grande.

 

 

 

 

 

 

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