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 Alvaro Gonzalez si racconta: «Sono stati gli anni più belli della mia carriera. Il rapporto con i tifosi era speciale, ecco come mi chiamavano»

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 Alvaro Gonzalez svela: «Sono stati gli anni più belli della mia carriera. Il rapporto con i tifosi era speciale, ecco come mi chiamavano»

Alvaro Gonzalez, ex centrocampista della Lazio con 146 presenze e 7 reti tra il 2010 e il gennaio 2017, protagonista della storica vittoria della Coppa Italia 2012/2013, ha ripercorso i suoi anni in biancoceleste in un’intervista a sslazio.it.

Come nasce il soprannome “Tata”?
«Un mio compagno nel settore giovanile del Defensor Sporting mi diede questo soprannome perché da noi “Tata” vuol dire saggio, diceva che avevo la voce di un vecchio, di un nonno. E così mi ha accompagnato per tutta la carriera».

Quando sei arrivato non ti conosceva nessuno?
«Mi conoscevano solamente i sudamericani, come Muslera ad esempio. Poi anche Zarate e Scaloni. Gli italiani e mister Reja invece no. Lo sapevo e arrivai convinto di dimostrare il mio valore. C’erano tanti calciatori forti, soprattutto a centrocampo, come Ledesma, Matuzalem e Brocchi. La concorrenza era alta. Diedi tutto e andò bene. Nelle prime partite non venivo praticamente mai convocato, andavo sempre in tribuna. Poi iniziò la Coppa Italia, segnai contro il Portogruaro e giocai anche il derby contro la Roma. Da quel momento la situazione cambiò. Reja mi vedeva solo come centrocampista, gli dissi che avrei potuto giocare anche come terzino ma mi rispose che poi avrei dimenticato la fase difensiva (ride, ndr)».

La svolta arrivò grazie al gol contro il Brescia, con la tua esultanza che simulava una chiamata con lo scarpino.
«Fu importante per tanti aspetti. Giocai da esterno alto, lo ricordo benissimo. Dimostrai di poter essere utile in ogni zona del campo. Così mister Reja mi diede più spazio e nella stagione successiva mi ritagliai un ruolo fondamentale. Esultai in quel modo perché mi mancava la mia famiglia, la foto della mia esultanza è famosa ancora oggi. Era la prima volta che mi trovato così lontano da casa, fu un gesto molto bello».

È vero che contro la Juventus eri sicuro di segnare? Tu che segnavi al massimo un gol a stagione?
«Sì, ed era una Juventus sicuramente più forte di quella di oggi. Non segnavo molto ma me lo sentivo: per questo avevo la maglia di Scaloni pronta. Lionel era infortunato ma ci teneva a rimanerci vicino, per lui fu difficile accettare l’infortunio. L’assist di Ledesma fu perfetto, mi tuffai di testa e segnai. Così corsi subito in panchina a prendere la maglia. Me lo sentivo dalla mattina della partita, non so perché».

A proposito di Scaloni: te lo aspettavi così decisivo con l’Argentina?
«Lionel era un allenatore in campo, quando andò all’Atalanta si muoveva già da vice e assistente tecnico di Colantuono, non era solo un calciatore. Capiva tantissimo di calcio, ovviamente non me lo aspettavo subito così vincente, mi ha sorpreso, ma ha meritato tutti i trofei conquistati con la Nazionale. Sa come esaltare i calciatori che ha a disposizione, sono molto contento per lui».

Hai mai più rivisto gli ultimi 5’ di Lazio-Juventus del 2013 su YouTube?
«Mamma mia! Fu un finale senza senso. Prima il pari di Vidal, poi il gol di Floccari e infine il tiro a porta vuota di Marchisio. Ho i brividi a parlarne, sembra che sia appena successo. Abbiamo sperato tutti che quella palla non entrasse. Era probabilmente destino…».

Il ritiro di Norcia fu la chiave per vincere il 26 maggio?
«Fu una mossa decisiva, la Roma invece rimase a Trigoria. Quel ritiro mi aiutò a recuperare dalla fascite plantare, il lavoro settimanale mi permise di giocare la finale. In città c’era un clima pesante, non potevamo rimanere lì. Però eravamo fiduciosi, sapevamo di essere forti. Quella coppa doveva essere nostra. E la vittoria nel derby dei derby, con la coppa alzata proprio contro la Roma, rimarrà indimenticabile».

Perché il destino fece segnare Lulic, l’uomo forse meno atteso?
«A volte devi farti trovare al posto giusto, Senad giocava con il cuore, percorreva 11 km a partita. Quel gol gli ha allungato la carriera nella Lazio. Gli ho sempre detto che la sua fortuna quel giorno era indossare gli scarpini con i tacchetti alti, altrimenti non so dove sarebbe finita quella palla (ride, ndr)».

I festeggiamenti durarono tutta la notte, chi era il meno lucido? La coppa con chi passò la notte?
«Uno tra Ledesma e Mauri si portò la coppa a casa, ora non ricordo bene chi fosse ma fu uno dei loro due. Forse più Cristian. Onazi quella notte invece era fuori di testa, era il più scatenato».

La vittoria del 2013 nacque anche dal 2-1 in extremis del 2011?
«Sì, è vero. Per fortuna avevamo giocatori forti e di personalità come Klose. Bastava dare la palla a Miro, al resto pensava lui. Vincere in quel modo fu bellissimo, indimenticabile».

È vero che lo giocasti da infortunato?
«Sì, avevo un problema al ginocchio. Ogni tanto mi si bloccava durante la partita, pensa che mi sarei operato solamente cinque anni dopo, nel 2016. Praticamente ero costretto a sbloccare il ginocchio durante la partita, inutile che ti dica il dolore che provavo. Soprattutto in partite come il derby, dove dovevi giocare sempre al massimo».

Chi è stato il compagno di squadra più forte?
«Klose, per forza. Ce ne sono stati tanti ma decisivi come Miro no, anche fuori dal campo. Klose dava l’esempio, arrivava per primo e andava via dopo tutti. Un professionista pazzesco, aver giocato con lui è stato un onore».

Il talento sprecato?
«Penso a Gonzalo Barreto, mio connazionale. Era un attaccante fortissimo, in Primavera segnava sempre, era capocannoniere. Purtroppo ebbe un problema familiare, sua madre venne assassinata, e non riuscì più a ripetersi su quei livelli. Peccato, perché era considerato il futuro della nazionale uruguaiana».

Quello sottovalutato invece? Magari proprio Gonzalez!
«Ci sono calciatori che fanno il lavoro oscuro, lontani dalla luce dei riflettori. Quelli che non rubano l’occhio. Voglio dire Biava, anche se è stato molto amato dalla tifoseria. Se lo vedevi, nemmeno sembrava un calciatore (ride, ndr). Era un difensore intelligente, pulito negli anticipi e senza errori. Giocatori del genere fanno la fortuna di ogni squadra».

L’avversario peggiore da affrontare chi era?
«Pogba, ai tempi della Juventus, era uno dei più forti al mondo. Aveva fisico e tecnica, un tocco che non era normale per uno alto due metri. Non ti faceva vedere palla, allungava il braccio, la proteggeva e se ne andava. Era devastante».

Il rimpianto più grande rimane l’Europa League 2013 oppure la mancata qualificazione in Champions League?
«L’Udinese in quegli anni era un incubo! Mi è mancato giocare la Champions League in Europa, in quelle stagioni la fortuna non fu mai con noi, tra differenza reti e scontri diretti. Quando arrivammo quarti si qualificavano le prime tre, poi quando finimmo quinti andavano le prime quattro. L’Europa League anche fu amara, contro il Fenerbahçe giocammo il ritorno con lo stadio vuoto, dopo una sconfitta nella gara di andata con delle decisioni arbitrali discutibili. Avremmo potuto fare tanta strada».

Qual è stata la tua Lazio più forte?
«Ho giocato in Lazio diverse, però quella di Petkovic era più coraggiosa, audace. Puntava a fare sempre la partita, senza paura. Però rimango molto legato anche alla Lazio di Reja, una squadra magari con meno qualità ma più pratica. Oggi studio per diventare allenatore e mi porto dietro anche i loro insegnamenti. Il calcio italiano è sempre stato molto tattico, ti lascia molto. Reja era unico nel saper gestire la rosa, Petkovic invece puntava di più sull’aspetto tattico».

C’è un Tata Gonzalez ora?
«Dico Vecino. Matias è forte, mi piace tanto. Ha la garra tipica dell’Uruguay e tempi di inserimento perfetti, con gol pesanti. Ogni tanto ha qualche infortunio ma dà sempre tutto, esce con la maglia sudata. Sono felice che sia alla Lazio, tiene alta la nostra bandiera, come fatto in passato da Muslera e Ruben Sosa».

Ti sarebbe piaciuto giocare con qualcuno in particolare alla Lazio?
«Ho vissuto i primi mesi con Luis Alberto, mi allenavo con lui prima che finissi fuori rosa. La sua qualità e la mia corsa si sarebbero sposate bene. Purtroppo non arrivò mai l’opportunità».

Risultati a parte, cosa ti ha lasciato la Lazio?
«Sono stati gli anni più belli della mia carriera, non ho dubbi. Ho avuto la fortuna di giocare anche con il Boca Juniors ma non sono stato felice come alla Lazio. Il rapporto con i tifosi era speciale, mi chiamavano “Motorino”. Mi sentivo forte, vinsi anche la Coppa America con l’Uruguay e disputai un bel Mondiale. Quella fu anche l’ultima partita dell’Italia in un Mondiale, spero che gli Azzurri riescano a tornare protagonisti. Purtroppo mancano i giovani talenti, non è un caso che Retegui, cresciuto in Argentina, sia il bomber della squadra di Gattuso. Speriamo bene perché non è la stessa cosa un Mondiale senza l’Italia».

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